Il sistema d’immagini e l’atmosfera – Un testo o un prodotto televisivo e cinematografico ci parlano tramite una comunicazione nascosta in bella
vista: una comunicazione composta di parole, immagini, oggetti, scelte di determinati vocaboli, alcuni
ormai entrati nel sentire comune, altri pensati espressamente per il prodotto specifico e che risponde al
nome di sistema d’immagini.

Pensate, ad esempio, a un film in cui vediamo qualcuno che sta camminando in un corridoio dove una delle
luci sfarfalla o lampeggia. Percepiamo immediatamente il pericolo e sappiamo che il nostro personaggio si
trova in un posto dove non dovrebbe essere: in genere, in una situazione del genere, o sta cercando di
trafugare dei documenti oppure sta per fare una fine orribile. In “Joker”, film Leone D’Oro a Venezia del
2019, un neon del corridoio del manicomio inizia a sfarfallare proprio pochi istanti prima che Joaquin
Phoenix strappi i documenti relativi alla madre di mano al guardiano.

Il sistema d’immagini e l’atmosfera

In un’opera visiva, individuarli è un’operazione più immediata. Ne “La donna che visse due volte” di Hitchcock (titolo originale “Vertigo”) tutta la storia è giocata sulle cadute e la paura delle altezze. Le inquadrature sono piene di verticalismi: alberi enormi, gru da costruzioni, gradini, quadri con torri.

Il sistema d’immagini e l’atmosfera

In un’opera di narrativa la comunicazione in questo senso è affidata a quella che potremmo definire “atmosfera”. Provate a pensare a tutte le volte che in un testo avete sentito una certa atmosfera che può essere poetica, avventurosa, sentimentale… oltre che dalla storia è data dalla comunicazione subliminale, giocata sulle sensazioni sensoriali, un campionario di vocaboli afferente a un determinato campo semantico. Nei testi c’è meno sistema codificato (non parliamo di situazioni o di moduli narrativi perché quelli possono rispondere alle esigenze del genere a cui il romanzo appartiene), ma più una scelta singola e precisa in ogni tipo di testo.

Per esempio:

Odio gli spettacoli mattutini. Di tutte le repliche che mi tocca fare in tournée, sono di sicuro quelle che sopporto meno. È parte del lavoro, mi dico, quando vedo il pubblico così poco interessato. Alcuni sbuffano, altri trafficano con il telefono anche se non dovrebbero, altri ancora (e sono quelli che mi fanno più infuriare) sprofondano nelle loro cuffie con la musica ad alto volume.

Quando ho ottenuto questo ingaggio, il primo della mia vita, mi pareva di galleggiare a mezz’aria. Roba importante, di carattere sociale: una rappresentazione salvavita, l’avevano definita. Ero partita piena d’entusiasmo, sempre sorridente e precisa. Studiavo ossessivamente la parte, la ripetevo davanti allo specchio per rendere i gesti esatti, ma ariosi. L’applauso che arrivava alla fine dello spettacolo, quando metà del pubblico era già pronta ad alzarsi e ad andarsene, lo sentivo anche un po’ mio sebbene comparissi solo nel primo atto.

Con il passare degli anni, l’entusiasmo è sfumato. La nostra recita, trita e ritrita, non sorprende il pubblico, gente di mondo che ha visto lo spettacolo più e più volte. I pochi che non lo conoscono consultano il libretto di scena e pensano di non aver bisogno di seguire le nostre mosse. Guardo il mio partner che ripete i miei stessi gesti, alcuni metri avanti a me nello stretto corridoio. Nemmeno lui ama gli spettacoli mattutini. Avrà anche lui gli occhi spenti e annoiati? Mi muoverò anch’io a scatti con le braccia rigide e la testa innaturalmente dritta? Penso sempre che potrebbero aggiornare un po’ la coreografia, che so, alleggerire qualche passo, rendere più accattivanti i costumi in modo da non obbligarci a indossare l’orrendo giubbotto giallo o arancione. Non sono colori che donano a tutti.

Il segnale acustico è partito. La voce annuncia che gli assistenti di volo ora mostreranno le procedure di emergenza. Lo ripete in italiano e in inglese. I passeggeri si siedono e allacciano le cinture. Mi posiziono al centro dell’aeromobile, pronta ad oscillare le braccia per indicare il sentiero luminoso sotto di me.

Questo breve racconto è giocato sui termini legati all’aria: sbuffare, galleggiare a mezz’aria, arioso, sfumare, alleggerire. Il sistema d’immagini in questo caso è predittivo per il cliffhanger finale che rivela che non si tratta di teatro, ma di un’assistente di volo annoiata nel ripetere sempre le procedure di emergenza.

di Giulia Pretta