PAROLE SOTTO I RIFLETTORI

1342448879-1justin_rowe_3dsculpturebookPer la rubrica Parole sotto i riflettori, un socio Fantalica che frequenta il laboratorio permanente di scrittura Lettera 22, e che usa lo speudonimo di NoRW ci propone:

CENTOQUATTRO

Vedo i mostri più o meno da quando avevo tre anni. Li vedo davvero. Non so capire se esistono realmente o se sono soltanto nella mia testa. So che li vedo e mi sembrano veri, e questo mi basta. Questa cosa la sanno soltanto i miei genitori, mia sorella, quindi anche tutte le sue stupide amiche, un paio di assistenti sociali, diversi psichiatri che mi seguono dall’età di tre anni, qualche impiegata del servizio sanitario locale che sbircia tra le cartelle cliniche dei pazienti sperando che il confronto ravvivi il rapporto con i mariti annoiati che a cena mangiano un polpettone surgelato spiando le tette delle figlie in crescita e della conduttrice del telegiornale serale senza sentire né la moglie né le notizie, limitandosi ad annuire ogni venticinque secondi senza sapere se stanno annuendo alla moglie, alle tette delle figlie, o a quelle della giornalista. Anche le insegnanti di tutte le scuole che ho frequentato dall’asilo in poi sanno che vedo i mostri. Lo sanno anche i presidi, gli insegnati di sostegno e i bidelli. Lo sa il vecchio nonno vigile sotto casa. Lo sa da quando attraversando la strada sulle strisce mi sono gettato a terra urlando. Il nonno aveva la faccia spaventata quando mia madre è scesa di corsa in pantofole e vestaglia per tirarmi via da lì. Non volevo saperne di alzarmi: ero circondato da quattro mostri blu dalle teste enormi e i capelli legati tra loro come un’unica creatura, nudi ma senza un sesso definibile, che mi ordinavano di rimanere immobile mentre mi pisciavano addosso. Avevano voci metalliche e profonde, come se provenissero da una caverna di latta, come fossimo dentro un silos per il grano. Da quella volta anche il nonno vigile con la sua pettorina arancione, la paletta, le mani dietro la schiena, lo sguardo da sceriffo del cazzo, sa che vedo i mostri. Adesso quasi non saluta più. Prima era tutto sorrisi e cordialità, adesso si è ritirato come se fossi uno dei mostri che vedo. Tutte queste persone sanno che da quando ho tre anni vedo i mostri. Quindi lo sa tutto il cazzo di quartiere, e forse anche la città intera. Lo sa anche la polizia locale: mi hanno registrato quando per scappare dai mostri sono entrato nel supermercato del centro commerciale, ho aperto la portella di un freezer, ho gettato fuori le pizze, le verdure, il pesce e gli hamburger e mi sono chiuso dentro. Uno con la faccia da ragno e le zampe da cavalletta si è fermato lì a sibilare il mio nome. Per farlo sparire ho sbattuto la testa sul vetro fino a svenire. Da quel giorno sono nell’archivio della polizia locale e probabilmente nazionale.

Da quando ho più o meno otto anni sento parlare della 104. Siamo coperti dalla centoquattro, le cure le passa la centoquattro, fortuna che abbiamo la centoquattro, ho preso due mesi di congedo straordinario della centoquattro. Sono un esemplare della centoquattro, sono il figlio di un articolo, il nipote di un decreto, il fratello di un comma. Centoquattro è lo sguardo di sdegno della maestra quando mi trova nell’armadio dove tiene le cartine geografiche e i vecchi registri. Puzza di muffa e merda di topo quell’armadio. La maestra puzza di vecchia bagascia insoddisfatta. Centoquattro è la festa di compleanno della più bella e ricca della classe – una grande festa organizzata dentro uno di quei palloni per coprire i campi da calcetto in inverno, con pizzette, dolci, musica – e non essere stati invitati. Centoquattro è il gusto ferroso del labbro rotto dall’anello dell’insegnante di sostegno. Centoquattro è l’incontro con il nuovo logopedista da cui esco strisciando con la schiena al muro tenendomi un braccio sulla faccia per non vedere tre mostri neri nella sala d’attesa. Centoquattro è il fallimento e la falsa speranza negli occhi dei genitori a giorni alterni. Centoquattro è preoccupazione, paura e schifo, pietà e pena. Centoquattro è un’uscita anticipata da lavoro perché mi piscio addosso e da quel giorno dover portare un pannolone da incontinente del cazzo. Centoquattro è picchiare un collega quando esce dal bagno con l’aspetto di un orco rosso con tre corna sulla testa e un serpente come coda. Centoquattro è non distinguere i mostri dai costumi di Halloween e dare un pugno a un bambino vestito da zombie. Centoquattro è quando incrocio il vicino nell’ascensore e quello sorridendo mette una mano sulla testa del figlio spostandolo. Centoquattro è la società che puzza di disprezzo al lime. Centoquattro è strappare la camicia alla pasticcera e mordere i capezzoli verdi profumati di pistacchio. Il giorno della 104 è stata la mia rovina.

Per mia madre era una condanna avere un figlio con un problema psichico, e poi sono diventato ufficialmente il pazzo del quartiere. Questa cosa ha ucciso mio padre. Letteralmente. È uscito sul terrazzo della cucina all’ottavo piano e si è lanciato giù. Doveva essere proprio al limite. Non ha aspettato di essere solo, non ha ingerito medicinali per avere il tempo di pentirsene. No, lui si è alzato durante la cena, quella sera stavamo mangiando crocchette ai formaggi e passato di verdure – mio padre ha sempre detto che ho una memoria di ferro – ha aperto la portafinestra scorrevole che aveva fatto riparare quel pomeriggio, mia madre gli ha chiesto: “Dove vai amore?” e lui si è buttato giù. Senza fermarsi un secondo, senza guardarci per dirci addio o qualche altra stronzata a effetto. È andato giù secco, diretto come una manciata di spaghetti che cade dal piatto e a terra fa sciac. Ha fatto sciac anche lui, l’ho sentito in mezzo a un suono come di nacchere scoordinate, fuori tempo. Non ha urlato cadendo, forse rideva. Ho ucciso mio padre.

Da quando avevo tre anni e le maestre dell’asilo volevano ritardare il mio passaggio alle elementari dicendo che ero handicappato, mio padre si è sempre battuto per mettere a tacere tutti. Per lui non esistevano problemi psichici. Per lui i mostri erano soltanto l’immaginazione fervida di un bambino che sarebbe arrivato lontano. Ai suoi amici diceva sempre che avevo qualcosa di geniale. Poi la Centoquattro ha spinto mio padre giù dal terrazzo quando avevo otto anni.

Prima di diventare un Centoquattro vedevo i mostri solo ogni tanto. Venivano in camera la notte, si sedevano in fondo al letto e scopavano insultandomi. Scopavano e mi dicevano che ero pazzo, e più paura avevo, più godevano. A otto anni ho iniziato a chiudere le serrature delle stanze di casa e a nascondere le chiavi. Mia madre chiedeva perché ma non potevo spiegarlo. Era difficile. Come potevo dire a mia madre che un gigantesco cane nero con le bave alla bocca si stava facendo scopare in bagno da un uomo decapitato che teneva la propria testa in mano?

Spesso di notte lasciavo il letto ai mostri. Volevano sempre scopare nel mio letto. Tiravo le coperte sopra la testa ma poi erano così vicini che sentivo il loro alito di carcasse e morte. Stringevo il cuscino e strizzavo gli occhi fino a farmi venire mal di testa e trattenevo il fiato per non sentire quell’odore di carogna. Ma finivo sempre per cedere. Gli lasciavo il letto, uscivo dalla stanza che chiudevo a chiave e andavo a dormire nella vasca.

Anni dopo il volo di mio padre ho iniziato a passare le notti di fianco a mia madre. Avevo tredici anni. Lei dormiva ancora nel letto matrimoniale. I mostri non mi seguivano, rimanevano lì a scopare e potevo sentirli ululare fino al piano di sopra. Mi accucciavo vicino a mia madre, annusavo il suo cuscino che puzzava di casco da parrucchiere e lacrime. Mi chiedeva se nella mia stanza c’erano i mostri e le dicevo di sì.

Una notte mi sono svegliato senza fiato. Non riuscivo ad aprire gli occhi, non riuscivo a respirare. Mi sono agitato e mia madre ha mollato la presa. Ha tolto il cuscino dalla faccia e ho potuto respirare di nuovo. Mentre ansimavo nel letto lei è scappata in bagno. Sentivo i singhiozzi dietro la porta. Da quel giorno non ho più dormito con lei.

Mia sorella era una santa. A nove anni siamo scappati assieme di casa. Siamo gemelli, io sono nato sei minuti prima di lei, tecnicamente è lei la maggiore. Quando siamo venuti fuori avevo due giri di cordone ombelicale al collo. Mia madre dice che la mancanza di ossigeno è la causa della mia Centoquattro. Siamo scappati un pomeriggio d’estate. Faceva molto caldo, e quando soffro il caldo i mostri appaiono più spesso. Dovrei vivere in un freezer. Siamo usciti mentre nostra madre era in cucina: lei, io e il cane. Abbiamo camminato sul bordo della strada per mezz’ora, erano le due del pomeriggio d’agosto. Arrivati giù ai campi da rugby, al nostro cane è sbucata una seconda testa al posto della coda. Gliel’ho spaccata con un bastone. Ho colpito fino a quando è scappato con le sue due teste. Quando siamo tornati a casa e nostra madre ha domandato incazzata dove fossimo stati le ho raccontato di come avevo difeso mia sorella. Uno psichiatra le aveva detto che probabilmente un animale avrebbe ridotto i sintomi della mia Centoquattro – l’aveva chiamato disturbo, ma puzzava di bugia come il dopobarba dolce sulle sue guance – invece non è andata così. Psichiatra del cazzo. Dopo abbiamo cambiato medico. Siamo andati da uno che profuma di cocco.

Annuso le persone, non ricordo quando ho iniziato a farlo.

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